Londra-Torino-Niger: un selfie per non farsi travolgere dalla folla

04.06.17 (il giorno dopo l’attentato a London Bridge e la finale di Champions League)

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Sabato sera qualsiasi maniaco dello smartphone ha avuto in diretta la notizia: attacco terrorista a London Bridge, un camion ha sterminato una quantità di persone indefinita, in una zona molto frequentata di sabato sera.

Per gli italiani le homepage dei quotidiani si stavano aggiornando contemporaneaente con un’altra notizia: 300 tifosi feriti in piazza San Carlo a Torino per un falso allarme bomba di fronte al maxischermo che proiettava la finale di Champions League.

Questa mattina le notizie hanno preso forma, molto rapidamente nuovi dettagli.

A Londra tre uomini dopo aver investito delle persone con un camion bianco, si sono diretti a Borough Market, nel cuore della metropoli, pugnalando diverse persone, sette morti e decine di feriti. A Torino 1527 persone sono state ferite a causa del movimento rapido e disordinato della folla, tre feriti gravi di cui un bambino di sette anni.

 

Molte persone stanno in questo momento godendo del proprio weekend lungo, il ponte di Pentecoste. La loro prima reazione alla prima notizia è stata probabilmente una breve sorpresa, si tratta di un atto terroristico di cui conosciamo ormai la sceneggiatura (dopo Nizza, Berlino, Londra), e che vogliamo allontanare piuttosto rapidamente dalle nostre coscienze, dal nostro meritato weekend. Il secondo evento ha scatenato in noi reazioni del tipo “ma che imbecilli!”.

Di fatto la nostra implicazione a questi eventi di cronaca potrebbe limitarsi a un rapido pensiero, un’attenzione morbosa per i dettagli e i video dell’accaduto, una riflessione sulla frequenza degli attentati negli ultimi tre mesi in Gran Bretagna, un commento con gli amici in occasione del pranzo della domenica o sulla spiaggia.

Poliziotti e militari faranno il resto, qualcuno vincerà le elezioni in Gran Bretagna, e altri terroristi hanno appena annunciato online di voler attaccare altre città.

Se si mettono i relazione gli eventi accaduti ieri sera in due parti distinte d’Europa il risultato è grottesco.

Tre ragazzi, probabilmente fra i 20 e i 30 anni, che i media già descrivono come “lupi solitari”, hanno voluto rimanere nella storia. Imprimere una traccia di sé nello sterminato archivio digitale delle nostre coscienze. Scattarsi un selfie, improvvisare un’azione “da eroi”. Stabilire una gloria effimera, nel tentativo di emergere, di consumare, forse, la rabbia in violenza.

Nel tentativo di non farsi travolgere dalla folla, quella folla molto razionale che chiunque sia passato dalla City ha potuto identificare. Quella folla che scorre i marciapiedi ordinatamente, marciapiedi che collegano i centri del business mondiale.

Quella stessa folla con cui ciascuno di noi apprende a fare i conti per tappe, attraverso una storia personale, ordinariamente scandita da affetti, famiglia, scuola, mondo del lavoro, attività sociali. Con cui ognuno di noi apprende a convivere, a mediare e a prendere le distanze.

Quella folla che oggi fatica ad essere comunità, comunità politica. Fallisce nel tentativo di rappresentarsi. Privata dei mezzi per farlo, la folla costituisce un aggregato di opinioni. Come afferma il duca d’Ayen, un liberal-conservatore francese, nel 1863: “in Francia, quel che si teme, non è il popolo, ma la folla, forza cieca e irresponsabile”.

Quella folla che la storia ci ha insegnato avere un potenziale potere mortifero.

Quella folla che oggi può assorbire l’individuo, renderlo anonimo, polverizzarne l’influenza. Silenzioso passante o cittadino di uno spazio urbano, anonimo utente di reti sociali. Quella folla di presenze digitali, che, manifestandosi fisicamente, in un istante di terrore, può calpestare l’individuo annientandone le forze, la volontà, il corpo.

Quella stessa folla che non si accorge di quanto accaduto in Niger negli stessi giorni dell’attentato a Londra. Nella regione di Agadez, nel cuore dell’Africa, 44 migranti sono stati trovati morti. Tra loro numerosi neonati, dispersi tra le dune di un deserto dove la temperatura raggiunge i 50 gradi. E ancora nel Mar Mediterraneo il 24 maggio sono stati recuperati sulle coste italiane i cadaveri di decine di bambini, vittime di un naufragio che ha tolto la vita a 34 migranti.

Nessuno di loro ha suscitato la nostra compassione, nessun selfie da quelle parti del globo, nessuna memoria. Quei bambini avrebbero raggiunto l’Europa. Ma per quei bambini, la folla è troppo distratta.

 

Ogni giorno molti di noi compiono lo stesso esercizio narcisistico, un selfie: io non sono la folla, io sono un essere che vuole non-essere la folla, “io” esiste. Esercizi innocui e senza morti né conseguenze, gesti anonimi, che finiranno nel dimenticatoio della storia, il cui innocente oblio è la nuova evidenza della folla.

I tre eventi citati raccontano bene i modi della violenza: selfie e folla.

Ma cosa vuole, cosa desidera ogni self-ie? Di cosa questi selfie sono sintomo? Possiamo noi comprendere come formare, aiutare questi selfie a non distruggere e a non distruggersi? Possiamo arginare gli effetti mortiferi di questi selfie? Come renderci conto di ciò che non si è reso accessibile come “selfie”?

Siamo noi in grado di ripensar-ci? In questo senso, siamo ancora capaci di rispondere alla domanda: qual è il compito della cultura? E della scuola?

I 2000 poliziotti “in più” schierati a Cardiff in occasione del match Juventus-Real Madrid possono davvero essere la risposta più efficace a questa nuova forma di terrorismo?

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